venerdì 14 gennaio 2011

Alain Passard : lo chef della svolta

- del Guardiano del Faro -

“Si rammenta quando diversi anni fa sono uscite le minigonne? Gli uomini erano come impazziti. Ma io ero piuttosto preoccupato, perché ho pensato: a questo punto non possono più accorciare, e dovranno per forza allungare.”

Una sera a Parigi cambiò tutto. Finalmente la svolta. Per la prima volta una donna mi disse : No ! Basta, questa sera io non ci vengo al Ristorante, sono stufa, mi mangio un insalata in albergo piuttosto, anzi, se ne ho voglia me la mangio proprio qui in camera, tu vai dove ti pare, ma io sono stanca di stare ore ed ore al ristorante per innescare il rito propiziatorio.

Non me la presi più di tanto, passai un oretta all’ultimo banco del Crazy Horse a ragionarci sopra e lanciando molliche appallottolate di baguette a quelli che stavano davanti per seguire meglio lo spettacolo e poi ripensai ad una frase di Bertrand Morane , che seduto al tavolo nell’ambientazione di un locale di Montpellier pensava : Il ristorante è un luogo meraviglioso per gli amori novelli, sconfortante per le coppie ufficiali Aveva ragione da vendere il Bertrand. Era solo al ristorante quella sera Bertrand, del resto nessuno l’aveva mai visto in compagnia di un uomo dopo le 18. Era nella sceneggiatura di “ L’uomo che amava le donne “ , come me quella sera all’Arpège, la prima di una discreta serie di assoli d’Arpège.


Un locale pieno di difetti l’Arpège, già strutturalmente, perché se Senderens se ne andò avrà avuto i suoi buoni motivi, era certo che il cadre di Lucas Carton poteva offrirgli ben altro palco da cui guardare il mondo : storia, posizione, ambiente, spazio. L’Archestrate invece si traduceva in quello scantinato con le volte vagamente arcuate e una triste scaletta a scendere dal misero rez de chaussè .

Di solito porta sfortuna cambiare nome ai locali, invece qui non capitò, perché il bretone con l’hobby della musica iniziò a scrivere la sua musica e diresse la sua orchestra in maniera impeccabile, già da subito l’Arpeggio produsse suoni indimenticabili tra i toni dorati del legno di pero e gli eleganti inserti di cristalli Lalique.

Alain Passard evidentemente si trovò molto bene al 84 di Rue de Varenne perché da lì mai si spostò, macinando successi assoluti di critica e di pubblico, pubblico anche semplice, clientela che si divide spesso su più turni, perché, noblesse e snobisme oblige, qui si viene anche per mangiare un piatto e un bicchiere di vino gomito a gomito con gli altri clienti e si lascia sul piccolo tavolo un grande biglietto da 200 euro senza esigere le monetine di resto, per poi proseguire la giornata in un pomeriggio piovoso fatto di dentro e fuori da negozi e boutique per un ben più dispendioso shopping, o per una serata gelida da riscaldare dentro un cinema o a teatro. Molte signore lo fanno, anche sole, in look da pre-shopping pomeridiano, vengono in taxi, pas de voiturier al 84 di Rue de Varenne, per nessuno, e allora dove la metto la macchina ? Ici ! Davanti alla porta, anzi, appena di lato s.v.p. , con due ruote sul marciapiede , pronta alle evenienze della vita, non si sa mai, un incontro casuale chez Passard non può essere casuale, quelli che entrano per caso, prenotati ma parvenu, quelli li becchi al primo sguardo.


Parigi ha un cambio diverso sull’euro, più o meno uno a due sul resto della Provincia francese, e vive anche ad una velocità diversa, snervante per la mente ed il fisico , per ogni portafogli e per ogni tasca, anche la più profonda. Parigi , i parigini e gli altri che riescono a viverci, vivono all’attico della vita, dove i costi non possono essere uguali al piano terreno.

Il termine provincialismo qui assume il vero senso del termine, perché ogni cosa fuori Parigi è inevitabilmente provinciale. Quello che forse vorrebbero o pensano di poter essere anche i madrileni o i romani, che se ti danno un indirizzo non ci mettono mai il nome della località, quasi che esistessero solo loro e che quella città rappresenti anche l’intera nazione. Poveri illusi . Parigi invece è veramente così, non solo nell’immaginario.

A tavola all’Arpège si mangia con il cronometro, in cucina si cucina con lo stesso strumento, la precisione nel trattare la materia prima è imprescindibile, più che nella cura delle presentazioni, mai prioritaria. Meglio salvaguardare le giuste temperature di servizio piuttosto che perdersi in virtuosismi scenografici, come fu da quell’altro bretone che fa di nome Roellinger. Prioritaria anche la concezione di concentrare e alleggerire contemporaneamente le salse, in modo che abbiano il gusto di una volta senza essere pesanti come un tempo, come certamente accade anche dal lyonnaise parigizzato, Bernard Pacaud . Qualche tocco esotico ricondotto a connotazioni prettamente francesi , profumi che seducono e ammaliano come le fragranze di Hermes, unite a quel senso innato di “pulizia del gusto” .


Raramente uno chef ha contribuito alla crescita di così tanti altri eccellenti chef, così va se parti dal basso, anche più di una volta come ha fatto Passard perchè poi sai anche come spiegarti efficacemente con i tuoi collaboratori, ti ci rivedi e capisci se, come e quando intervenire. Due volte arrivato a due stelle Michelin in stabilimenti diversi come Le Duc D’Enghien e il Carlton di Bruxelles, ricominciò da zero all’Arpège, risalendo la corrente e arrivando al top. Poi il ritorno verso la terra, le origini, le verdure , le radici, scelta disperante per chi cercasse proteine animali che non siano in qualche elemento ittico. Non sarà una novità ascoltare chi da Gagnaire esce disperato gridando allo scempio economico di fronte ad un pasto di radici a 500 euro. Anche all’Arpege può succedere questo, non importa, basta saperlo e affrontare l’ostacolo con coscienza e conoscenza, e se proprio non si vuole subire la marea verde ci sono sempre un paio volatili in carta.

Decisione più o meno condivisibile ; secondo me si, per ripartire verso un percorso diverso, dove le carni rosse, esplorate e interpretate in ogni modo non lo stimolarono più, e quindi l’inevitabile ritorno alla cucina di base vegetale, la cucina che oggettivamente offre il più ampio margine di evoluzione, con i mille colori e sapori riconoscibili alla cieca. Passard per essere certo di poter offrire il massimo in quel segmento alimentare creò un proprio orto, a 200 chilometri da Parigi,orto biologico che contribuisce primariamente alla filosofia odierna di questo chef, e che consente al cliente dell’Arpège di sobbalzare al semplice assaggio di una carota o di un asparago.

Dicevo dello stuolo di chef di successo formatisi sotto la guida di Passard, così tanti e così bravi forse solo Robuchon e Ducasse ne hanno visti crescere ed affermarsi universalmente. Penso a Pascal Barbot, Jacques Decoret, Claude Bosi, Mauro Colagreco, William Ledeuil, Alexandre Bourdas, ecc.ecc.

Uno stile inconfondibile per tutti, quello della Generation Passard, quella che oggi sta tornando alle radici, ai tuberi, ai bulbi, alle foglie, al centro della terra, ma con una certa classe , ricalcando in maniera più trendy quella del dandy haut de gamme e quindi spesso indisponente, con una bella faccia da schiaffi, uno un po’ così insomma , anche lui alla ricerca della sua Avalon, bretone. gdf







Da sinistra, Pascal Barbot : tre stelle a Parigi. Claude Bosi : due stelle a Londra. Fabio Barbaglini: una stella in Valle d'Aosta . Gdf : zero tituli.

4 commenti:

  1. e sono belle storie queste, appassionate e ben dettagliate.
    Ale

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  2. GdF zero tituli fa sempre la sua bella figura.. sara' merito delle giacche..? ;-)

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  3. Passard?
    Ahi, ahi, ahi.....

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